Quell’estate di fuoco per la nostra professione

Avv. Ester Isaja

Erano gli anni nei quali risuonava l’eco del discorso appassionato in TV di Silvio Berlusconi e in quelle parole “L’Italia è il Paese che amo…”, che preannunciavano il sogno ambizioso dell’ imprenditore, trovavano una forte spinta anche i sogni di coloro che allora erano appena dei giovani avvocati. Erano tempi nei quali parlavamo di libertà e autonomia della professione di avvocato, di deontologia, di responsabilità, di giustizia.

Ebbene, a distanza di trent’anni, posso dire che quelli furono anni bellissimi, sereni, di grande impegno ma anche di benessere e chi come me li ha vissuti, nella vita e nella professione, non li ha certo dimenticati.

Ma tutte le cose belle sembra non siano mai destinate a durare a lungo e, nel 2006, mentre nelle stanze dorate dei Consigli dell’ Ordine si discuteva di minimi tariffari e dell’’impossibilità di assimilare la categoria dell’avvocato a quella dell’ imprenditore, a seguito delle risultanze dell’ indagine avviata dall’ Autorità garante della concorrenza e per il mercato e di alcune sentenze, in piena estate, si abbatté sugli avvocati la scure del decreto Bersani n. 223/2006, con l’ abrogazione dei minimi tariffari obbligatori etc.

Quell’estate divenne improvvisamente “di fuoco” e rimase indimenticabile.

Da quel momento in poi è incominciata per la nostra categoria una durissima e impervia salita e sono stati anni molto difficili, nei quali abbiamo subito attacchi ingiustificati e la nostra nobile e prestigiosa professione ha cominciato a perdere valore.

Abbiamo vissuto riforme su riforme sino, in tempi più recenti,  all’ avvio del processo telematico, che ha svilito fortemente il ruolo dell’avvocato e ha creato un processo governato e dipendente in tutto e per tutto dalle macchine, con buona pace della nostra importante funzione difensiva.

E, se pure a voler essere moderni e progressisti si possono intravedere nel processo telematico dei vantaggi, certamente questi non colmano le criticità esistenti con le quali siamo costretti a fare i conti quotidianamente.

Non dimentichiamo, poi, il lungo periodo del COVID, con gli studi chiusi per l’emergenza sanitaria a ingegnarci da casa per effettuare adempimenti indifferibili e portare avanti il lavoro, mentre una moltitudine di decreti sempre nuovi affollavano le nostre scrivanie, senza soluzione di continuità.

A seguito di questo altro difficile periodo alcuni studi professionali non hanno più riaperto e molteplici sono state, negli anni più recenti, le cancellazioni anche volontarie di Colleghi da parte dei Consigli dell’ Ordine.

Tristissimi, eppur esistenti, il disamore per la professione, che, probabilmente a causa delle vicissitudini patite, si è impadronito di molti avvocati e la mancanza di “passione” registrata soprattutto nei più giovani, molti dei quali hanno lasciato l’avvocatura indirizzandosi verso strade economicamente più sicure.

Tuttavia, se ai tempi di Calamandrei gli avvocati in Italia erano 25.000, nel 2023 eravamo ben 244.000.

Coloro che hanno resistito nel tempo e continuano ancor oggi a esercitare questa nobile e prestigiosa professione, lo fanno con orgoglio, portando con sé le cicatrici di questi difficili decenni vissuti intensamente e conservando nel cuore una passione che si alimenta ogni giorno e che nulla riesce a scalfire. Sono gli avvocati che oggi, senza pericolo di sbagliare, possiamo definire “anziani” (categoria alla quale anch’io appartengo), quelli che credono ancora nei valori, nel rispetto dovuto al collega e al giudice, e questi valori continuano a trasmettere ai giovani. Sono quelli che oggi, coi capelli bianchi, vanno avanti con fierezza nella consapevolezza di esercitare la professione più bella del mondo.

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