L’avvocato scrittore racconta la Seconda Guerra Mondiale / Il libro di Romano Zipolini

Romano Zipolini, avvocato del Foro di Lucca, ha pubblicato per i tipi di Tralerighe la storia del padre marinaio che partito da Barga visse i fatti della grande storia durante il secondo conflitto mondiale: “A noi non accadrà. Un marinaio nella Seconda guerra mondiale. Da Barga a Capo Matapan, la prigionia, Bari”. Un marinaio che affondò con lo “Zara” a Capo Matapan, finì prigioniero dei greci, liberato tornò in Italia e fece poi parte delle unità militari marittime della Regia Marina del Regno del Sud. Assistette al bombardamento tedesco di Bari e alla tragedia del trasporto statunitense della “John Harvey” carica di bombe all’iprite.

Per ogni generazione – recita la presentazione – solo coloro che si presentano come inattuali possono forse far vivere una possibilità di creare il mutamento. Si tratta di uomini che sono “fuori dal mondo”, incompresi ai più, che, invece, sono fin troppo dentro al mondo.
Può accedere che gli inattuali rimangano ignoti persino a sè stessi, ma essi riescono a trasmettere ugualmente la forza del dissenso a coloro che debbono venire.
É questa la chiave del racconto della vita di un marinaio, che si cambiò anche il nome, per indurre a capire ciò che viene celato.
Un marinaio che affondò con lo “Zara” a Capo Matapan, finì prigioniero dei greci, liberato tornò in Italia e fece poi parte delle unità militari marittime della Regia Marina del Regno del Sud. Assistette al bombardamento tedesco di Bari e alla tragedia del trasporto statunitense della “John Harvey” carica di bombe all’iprite.
Poi il trasferimento a Livorno, la liberazione della sua Barga e la fine della guerra.

(La copertina del libro)

Ecco un estratto:
«Lo abbiamo visto. Dritto sulla plancia, con i moncherini delle sue belle mani levati al cielo. Ormai una torcia umana. Abbiamo sentito il suo ultimo grido, che ci ha inebetiti: “Maledetti, vinceremo lo stesso! Nessuno ha avuto pietà di noi e c’è toccata di subirla intera e perenne la sventura di vederlo sparire tra le fiamme. Per una infinità di tempo non ci è importato nulla del fuoco, della Patria, delle nuove bordate e di quei poveri compagni che cercavano scampo gettandosi, uno sull’altro, nelle acque gelide, al largo di Capo Matapan. Poi ho sentito Ottone, flebile e lontano, rimbombarmi nelle orecchie: “Vieni Mario, andiamo. Gettiamoci in acqua, prima di andare a fondo con la nave. Non c’è più nulla da fare qui”.
Improvvisa, si è svegliata la lucidità: “Fermo! Non vedi che si fracassano l’uno sull’altro? Vieni. Ora scendiamo in coperta. Beviamo acqua dolce. Ci copriamo ben bene, perché siamo lontani dalla costa ed è troppo freddo. Poi cerchiamo due giubbotti e ci gettiamo in mare, ma dall’altra parte, non dove si gettano tutti, troncandosi le spine dorsali”.
Ottone mi ha seguito, per istinto, per fiducia nell’amico, per non morire da solo.
Ho fatto tutto come ci era stato insegnato alle scuole di Pola, per salvarci la vita. Siamo scesi sottocoperta, scansando chi fuggiva. Abbiamo tracannato l’acqua da una damigiana rimasta intatta: non è stato difficile bere tanto, eravamo riarsi. Ci siamo vestiti ed allacciati le scarpe. Abbiamo indossato i salvagente di sughero.
Lo Zara non è affondato subito. Ha resistito ancora alle tremende bordate, generoso, nell’ultimo estremo sforzo di salvare i suoi poveri marinai; fedele, almeno lui, al suo motto. Ci ha dato il tempo di risalire sul ponte inclinato e di inoltrarci tra le fiamme.»

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