La violenza e le armi. Quella lama che uccide lo Stato di diritto

Trench knife’ Ka-Bar Camillus è l’arma che ha ucciso il carabiniere Mario Cerciello Rega secondo quanto ha scritto il gip di Roma, Chiara Gallo, nell’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di Christian Gabriel Natale Hjort e Finnegan Lee Elder, i due cittadini americani ora in carcere. E’ un coltello a lama fissa lunga 18 centimetri modello marines con impugnatura di anelli di cuoio ingrassato e pomolo in metallo brunito.

Trench knife’ Ka-Bar Camillus, il coltello a lama fissa con cui è stato ucciso Cerciello Rega

Si tratta di un modello simile a quello che si vede nei film di Rambo. Durante la Seconda Guerra Mondiale il Ka Bar era diventato il coltello dei Marines ed è rimasto a lungo nella dotazione del corpo.

Il coltello di 18 centimetri utilizzato da Finnegan Lee Elder per uccidere il vicebrigadiere dei carabinieri è stato portato dagli Stati Uniti.

L’arma, come hanno spiegano gli inquirenti, era in una valigia imbarcata nella stiva. Quella lama non è arrivata solo in fondo al cuore di Mario.

Mario Cerciello Rega, il vice brigadiere ucciso nel centro di Roma

La speranza è che la giustizia non ci lasci rabbiosi. La sete di vendetta non deve prendere il sopravvento in uno Stato di diritto. Mario non può e non deve, anche lui, finire nelle solite commemorazioni dove basta una mano sul cuore sulle note dell’inno di Mameli. Negli Stati Uniti da anni si sono susseguiti episodi di aggressività e follia omicida in diversi luoghi pubblici come scuole, centri commerciali, luoghi di lavoro e di culto, cinema, parcheggi. Una serie interminabile di stragi e sparatorie di adolescenti armati più di un soldato in guerra. I protagonisti, sia vittime sia carnefici, sono molto spesso studenti delle superiori o ragazzi ventenni. Tale violenza, correlata al radicato diritto americano di possedere armi, ha avuto un incremento preoccupante negli ultimi decenni. Nel nostro Paese ancora non assistiamo a episodi di simile ferocia, siamo comunque assuefatti da fatti di cronaca nera di cui si cibano tutti i telegiornali, i quotidiani e di frequente il circo mediatico nei quali ad aumentare l’audience sono le storie di giovani, donne e bambini. E in cui finirà molto presto Mario e la sua “brutta” storia. Non basta fermarsi a riflettere su quanto accaduto, non bastano i messaggi di cordoglio.

La società non può arrendersi all’accettazione della violenza come scelta percorribile per risolvere i problemi e le controversie.

Il californiano fermato per l’omicidio nella foto che ha fatto tanto discutere

Lo psicologo Albert Bandura nel 1973 dimostrò come i comportamenti aggressivi, soprattutto durante l’infanzia, vengano ripetuti e poi appresi per imitazione di un’altra persona che li compie. Qualche anno prima, nel 1967 Berkowitz e Le Page parlarono di un ‘’effetto arma’’, vedere la presenza di un’arma stimola pensieri di aggressività, rendendo più probabile il comportamento aggressivo. È stato dimostrato come anche la descrizione o un’immagine di un’arma possano rendere più probabile il comportamento aggressivo. Berkowitz, dichiarò che “il dito preme sul grilletto, ma talvolta è il grilletto a premere sul dito’’. Per questo la National Rifle Association, contraria ad ogni limitazione della diffusione di armi, sostiene che non sono le armi ad uccidere ma le persone. L’arma è il simbolo concreto dell’aggressività e della violenza. Usurpa il ruolo delle parole e del dialogo, priva le persone dell’opportunità di comunicare e conoscersi tra loro.

Luigi Cancrini, psichiatra italiano, sostiene in molti suoi libri, l’importanza dell’infanzia, dei suoi vissuti, dei pensieri e degli stati d’animo. Un’infanzia con genitori che non ascoltano, non curano, non dimostrano affetto, è il presupposto per lo sviluppo di gravi disturbi di personalità. Per Cancrini il problema alla base di efferati omicidi o di stragi è il disturbo paranoide di personalità, caratterizzato da manie di persecuzione, diffidenza, crisi di violenza improvvise e immotivate e dalla tendenza a collezionare armi. Gli autori di tali efferatezze hanno vissuto un’infanzia di abbandono genitoriale che legittima la violenza attuale ma non la sua accettazione.

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