Con la risoluzione numero 54/134 del 17 dicembre 1999, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite ha designato il 25 novembre come “Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, invitando i governi, le organizzazioni internazionali e le ONG a organizzare attività volte a sensibilizzare l’opinione pubblica in quel giorno. La data fu scelta in ricordo del brutale assassinio nel 1960 delle tre sorelle Mirabal, esempio di donne rivoluzionarie per l’impegno con cui tentarono di contrastare il regime di Rafael Leonidas Trujillo, dittatore della Repubblica Dominicana. Mentre si recavano a far visita ai loro mariti in prigione, furono bloccate sulla strada da agenti del Servizio di informazione militare, condotte in un luogo nascosto furono stuprate, torturate, massacrate a colpi di bastone e strangolate, gettate in un precipizio per simulare un incidente.
La violenza contro le donne, che comprende reati come la violenza sessuale, i maltrattamenti, gli atti persecutori, rappresenta una violazione dei diritti fondamentali delle donne in termini di dignità, parità e accesso alla giustizia, perché anche nel contesto in cui dovrebbe ricevere giustizia, può trovare una forma di approccio scorretto e irrazionale del sistema. Una “violenza sottile” che si nasconde anche nella dialettica e nel linguaggio giudiziario quando per esempio vengono poste domande sulla moralità di donne vittime di violenza sessuale, in aperta violazione della legge n.66/1996, quando vi è un approccio giudicante nella intervista posta alla parte lesa oppure quando negli atti giudiziari vengono formulati giudizi morali sulla vita delle vittime o vengono usati passaggi equivocabili che si prestano a interpretazioni mediatiche pericolose. I magistrati sono formati a formulare valutazioni e giudizi assolutamente laici e non aggredibili dalle emotività esterne, una formazione che ricade nell’alveo della indipendenza intellettuale interna e che deve essere continuamente affinata.
Recentemente in un percorso formativo, rivolto ai magistrati sugli ostacoli all’accesso alla giustizia delle donne determinato non dalla mancanza di legge ma dalla presenza di stereotipi e pregiudizi sessisti – oltre a 54 magistrati ordinari e togati – si sono confrontati le responsabili e le avvocate dei centri antiviolenza che hanno portato la voce delle donne che si ribellano alla violenza maschile, il loro vissuto, il loro coraggio e le problematiche che affrontano nel percorso di uscita dalla violenza. Presente anche l’avvocata Teresa Manente, socia dal 1994 e responsabile dell’ufficio legale dell’associazione Differenza Donna, consulente tecnico della Commissione parlamentare di inchiesta sul femminicidio e promotrice presso il Tribunale di Roma, del Tavolo interistituzionale permanente per la prevenzione della violenza domestica e ogni forma di violenza domestica.
Da indagini diffuse dai media risulta che ogni tre giorni in Italia viene uccisa una donna e ogni 15 minuti una donna subisce violenza. Mentre da una recente indagine ISTAT (ultimi mesi 2019) emerge che una persona su 4 (uomini e donne) si dice convinto che la violenza sia causata da come la donna è vestita, e meno della metà pensa che se vuole si può sottrarre ad uno stupro. Un’altra parte degli intervistati dice che se la donna ha bevuto alcolici è responsabile della violenza subita, che spesso le denunce di violenza sessuale siano false, che le donne quando dicono no ad un rapporto sessuale intendono un sì e c’è chi giudica normale che un uomo eserciti controllo, sorvegliandole il cellulare o gli account social.
“Quello che emerge è la diffusione di una cultura dominante – dichiara l’avvocata Manente – intrisa di pregiudizi e stereotipi sessisti che portano ad una sottovalutazione della gravità delle condotte illecite commesse nei confronti delle donne, una sistematica negazione del fenomeno che per dimensioni e gravità è un problema sociale con radici storiche e culturali, prodotto da una cultura che legittima una struttura dei rapporti tra i sessi fondata sulla discriminazione della donna, causa riconosciuta da organizzazioni internazionali come le Nazioni Unite, il Consiglio d’Europa e l’Unione Europea. Ricordo la Cedaw (Convenzione per l’eliminazione di tutte le forme di discriminazione delle donne ratificata dal’Italia sin dal 1985 )e la Convenzione di Instanbul. Quest’ultima in particolare impone di “garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della legge affrontino in modo tempestivo e appropriato tutte le forme di violenza offrendo una protezione adeguata e immediata alle vittime, nonché garantire che le autorità incaricate dell’applicazione della legge operino in modo tempestivo e adeguato in materia di prevenzione e protezione contro ogni forma di violenza, anche utilizzando misure operative di prevenzione e la raccolta delle prove (art.50) e “consentire alle autorità competenti di valutare il rischio di letalità, la gravità della situazione e il rischio di reiterazione dei comportamenti violenti al fine di gestire i rischi e garantire se necessario, un quadro coordinato di sicurezza e di sostegno (art.51)”.
“Il nostro ordinamento normativo – continua l’avv Manente -dispone attualmente di norme astrattamente idonee ad assicurare in maniera tempestiva l’immediata protezione alle donne (arresto in flagranza, ordine di allontanamento urgente dalla casa familiare, misure cautelari specifiche e ordini di protezione in sede civile), strumenti che se fossero applicati in maniera rigorosa eviterebbero la necessità di fuga dalla casa familiare da parte delle donne tutelandone la loro incolumità e quella dei figli minori. Nella prassi queste norme troppo spesso non vengono applicate perché le donne non sono credute e le loro paure sono sottovalutate. Rimane grave il grado di inattuazione degli istituti previsti a causa dei pregiudizi di genere diffusi anche nel sistema giudiziario.
Le forze dell’ordine chiamate ad intervenire in una situazione di emergenza raramente applicano l’ordine di allontanamento urgente dalla casa familiare dell’uomo maltrattante previsto dall’art. 384-bis del codice di procedura penale, una misura questa che consentirebbe “previa autorizzazione del pubblico ministero anche resa oralmente e confermata in via telematica”, di intervenire in maniera tempestiva e adeguata a proteggere la vittima da ulteriori violenze.
L’articolo 384 bis c.p.p. prevede l’allontanamento urgente dall’abitazione familiare anche per minacce gravi (articolo 612 comma 2c.p.), lesioni volontarie, anche lievissime, se vi è querela e siano aggravate (per esempio se il fatto è commesso con armi, contro coniuge o convivente o persona legata da relazione affettiva). Si precisa che dovrebbe sempre essere disposto l’allontanamento dall’abitazione familiare della persona violenta e non delle vittime e ciò anche nelle ipotesi in cui la vittima sia stata costretta ad allontanarsi dall’abitazione familiare per sottrarsi alla violenza. (Una volta emesso il provvedimento, infatti, la donna può rientrare nell’abitazione familiare e ove necessario, all’uomo potrà applicarsi la modalità di controllo del c.d.” braccialetto elettronico”.
In questa situazione di emergenza sanitaria se all’inizio si è registrato una diminuzione degli accessi delle donne ai centri antiviolenza e agli sportelli gestiti dall’Associazione Differenza Donna che non hanno mai smesso di operare 24 ore su 24, attualmente le richieste si sono raddoppiate rispetto agli scorsi anni.Molte sono le donne che ci segnalano anche tramite sms difficoltà a telefonare perché sottoposte al controllo continuo del partner.
“Differenza donna” nasce nel 1989 da un gruppo di donne femministe per contrastare la violenza delle donne e per combattere le cause sociali e politiche che sottendono al fenomeno, contro la cultura patriarcale che le vuole sottomesse e contro ogni forma di discriminazione sessista ead oggi ha accolto oltre 25 mila donne nei centri antiviolenza case rifugio e sportelli. Ha aperto sportelli in Russia , realizzato un centro a Betlemme in Palestina e in altri paesi.
Ha avviato il primo osservatorio per le donne disabili vittime di violenza. Gestisce anche un centro antiviolenza e una casa rifugio per donne vittime di tratta e attualmente anche il 1522 finanziato dal Dipartimento delle Pari opportunità.
Di recente l’associazione insieme all’università la Tuscia di Viterbo con la prof. Flaminia Sacca, ha portato a termine il progetto “Step” contro stereotipi e pregiudizi di genere in sede giudiziaria e nel racconto dei media nei confronti delle donne sopravvissute alla violenza di genere, finanziato dal Dipartimento delle Pari opportunità per un cambiamento culturale. La ricerca ha messo in evidenza come sia nei media e sia in sede giudiziaria prevalgono pregiudizi sessisti contro le donne.
Ad es.far passare il femminicidio o il figlicidio quale reazione alla volontà della donna di separarsi oppure per un raptus, così come troppo spesso sii legge nei media, significa occultare i fatti e colpevolizzare la donna che da vittima passa ad essere l’autrice di azioni che hanno condotto l’uomo a reagire finanche ad ucciderla, il femminicidio quale reazione al comportamento della donna e ciò c equivale a giustificare il crimine, così utilizzare la parola gelosia per giustificare il crimine significa occultare il fatto che si tratta di esercizio e di controllo sulla vita della donna.
Determinante nella pratica femminista del processo è stata la relazione primaria tessuta con le operatrici dei centri antiviolenza quanto quelle con le donne accolte. Uno scambio continuo di competenze e necessità che guardano ancora nella stessa direzione. “Denunciare una violenza maschile significa cambiare il mondo per il benessere della società tutta – ha dichiarato l’avvocata Teresa Manente -. Il femminismo giuridico è un campo che promuove e protegge non solo i diritti delle donne, ma un mutamento di punto di vista che permetta alle donne di prendere parola sul mondo e modificare la realtà dalla famiglia, alla salute, all’economia, al lavoro.
Le donne che si ribellano alla violenza maschile e la denunciano sono donne forti e coraggiose. Non sono soccombenti, sono vittime del crimine compiuto da altri ma sono parti attive nel voler affermare la loro libertà e i loro diritti”.